Montagne di Groenlandia. Estate 1966.

La Penisola Wegener, visitata dagli Italiani di Carate Brianza.
Da: Giuseppe Cazzaniga - Spedizione "Città di Carate" Groenlandia '66.
Relazione originale.
(Estratto di "Montagne di Groenlandia"; Mario Fantin, Tamari editori, Bologna settembre 1969.).

Già da qualche tempo, nelle nostre riunioni in Sede o in occasione di ascensioni, si accennava fra noi alla possibilità di effettuare una spedizione alpinistica extraeuropea. Ma le numerose difficoltà che l'organizzazione di questa spedizione avrebbe implicato, si ergevano come barriera a frenare i nostri entusiasmi. Nell'estate del 1965 alcune indicazioni ci fecero comprendere che i tempi erano ormai maturi.

Bisognava pertanto scegliere la zona. L'ottima riuscita della spedizione milanese Grönland 1965, la possibilità (salvo imprevisti) di compiere il lungo ed evventuroso viaggio in breve tempo; il desiderio di andare in una zona alpinisticamente sconosciuta e, non ultima, la certezza di fare a meno di portatori onde contenere le spese in un certo limite, ci indicarono la Groenlandia come la zona a noi più confacente. Successivamente, dietro suggerimenti di Guido Della Torre (capo spedizione dei Milanesi) che fra l'altro ci diede una foto e varie indicazioni utilissime sulla Groenlandia, si scelse come zona di operazioni la Penisola Alfred Wegener, situata sulle coste occidentali a 71° e 10' di latitudine nord.

Dopo avere richiesto ed ottenuto (tramite il Consolato Danese a Milano) l'assicurazione sulla concessione del permesso, prendemmo contatto con il signor Due Pedersen capo della polizia del distretti di Umanak, nella cui giurisdizione è compresa la Penisola Wegener.
A questa gentilissima persona (che ci fu di grande aiuto) chiedemmo collaborazione nel custodirci i materiali che avremmo inviato e nel procurarci battelli per il viaggio da Umanak alla Penisola Wegener. Avute in merito assicurazioni precise, a fine aprile 1966, si procedette ad inviare circa 7 quintali fra materiali e viveri. Ormai si entrava nel vivo. Fra le lezioni dei corsi primaverili di roccia organizzati della Scuola di alpinismo Mario Dell'Oro della Sezione di Carate Brianza, che ci vide tutti impegnati nella nostra qualità di Istruttori, e gli allenamenti compiuti durante le gite di fine settimana, arrivò il giorno della partenza fissato per il 21 luglio. Dal diario.

21 luglio 1966
Aeroporto di Linate ore 13,20, saluti da parenti ed amici e con l'augurio del C.A.I. Centrale portatoci personalmente dal vice-presidente generale Bozzoli-Parasacchi, partiamo con un volo della S.A.S. per Copenaghen: capo spedizione: Pier Luigi Airoldi (C.A.A.I Instr. Naz. Gruppo Ragni e C.A.I. Sez. di Lecco e Carate B.); Pier Luigi Bernasconi (C.A.A.I. Sez. C.A.I. di Como); Giuseppe Cazzaniga (Guida Alpina e C.A.I. Sez. Carate B.); Bruno Galli (C.A.I. Sez. Carate B.); Ettore Villa (C.A.I. Sez. Carate B.).
Un gruppo affiatato che amalgama alpinisti di chiara fama come Airoldi e Bernasconi che fra l'altro hanno all'attivo l'esperienza di altre spedizioni in Alaska e nelle Ande, ai giovani Villa e Galli smaniosi di sperimentare in una zona nuova le loro qualità già affermate in molteplici scalate sulle Alpi.
Arriviamo a Copenaghen dopo circa un'ora e quaranta minuti di volo. Qui non vige l'ora legale, pertanto riportiamo indietro di un'ora l'orologio.

22 luglio
Si parte da Copenaghen con un DC8 che in cinque ore ci porta a Söndre Strömfjord, aeroporto intercontinentale groenlandese, situato sul circolo polare. Qui facciamo conoscenza per la prima volta con la chiara notte polare. Infatti sono le ore 23 e nel camerone dove alloggiamo, scrivo queste note rischiarate dalla luce naturale (orologio, indietro di 4 ore! Nota M.F.).

23 luglio
Con un grosso elicottero delle linee aeree groenlandesi arriviamo ad Egedesminde, una delle più importanti cittadine della Groenlandia.
Il volo radente dell'elicottero in una bella giornata di sole, ci dà la possibilità di ammirare il magnifico ed interessante panorama che via via sfugge sotto di noi. Innumerevoli laghetti, lunghi e profondi fiordi, placidi fiumi che scendono sinuosi verso il mare con sponde parallele, danno l'illusione di grandi strade, ed ancora renne che pascolano in mezzo ad arbusti ed in lontananza i primi iceberg che maestosamente emergono dalle acque.
A Egedesminde sostiamo fino al giorno 25 luglio in attesa della nave che ci deve portare a Umanak. La sosta forzata ci rende impazienti ma non intacca il morale.
Ci imbarchiamo; alle ore 15 si salpa. Il viaggio in un mare calmo è reso interessante dalle soste nelle varie cittadine toccate dalla nave che si chiama Qunenguak. Il giorno 26 la nave, dopo essersi incuneata zigzagando in mezzo ad una paurosa barriera di ghiaccio, arriva ad Umanak.
Fra la popolazione, che solitamente viene a salutare gli arrivi e le partenze dei natanti, ci sono i componenti la spedizione "Città di Tortona" ed i coniugi Pedersen. Il signor Pedersen oltre ad essersi preso cura del nostro materiale inviato in precedenza, e ad averci noleggiato i battelli, ha pensato anche a procurarci un letto per la notte, facendoci alloggiare in un appartamento solitamente abitato dagli insegnanti delle locati scuole. Ci invita infine ad un rinfresco in onore dei Tortonesi che sono sul piede di partenza per il ritorno in Patria.

27 luglio
Ci imbarchiamo sul battello da pesca del signor Pedersen, mentre il materiale è stato caricato su una barca a motore che ci segue. Dopo circa nove ore di navigazione con mare buono, sbarchiamo sulla Penisola Wegener. Kurt Diemberger, che non è rientrato con i Tortonesi, ha voluto accompagnarci e gentilmente ci aiuta a sbarcare il materiale. Fatto questo e dopo esserci accordati con il signor Pedersen circa la data del ritorno, i battelli se ne vanno. Diemberger, simpaticamente, con la sua inseparabile chitarra ci saluta cantandoci una canzone augurale.
Ormai siamo soli, isolati dal mondo, senza possibilità di comunicare con nessuno.
Il desiderio di cimentarci su queste montagne, ci fa dimenticare in parte la pericolosità della nostra situazione, nel caso di incidente anche lieve. Scelto uno spiazzo erboso a circa centocinquanta metri dal mare, montiamo le tende per il campo-base. Sono le 22, il sole splende ancora alto e si appresta a nascondersi per poche ore dietro i monti di Qîoqe.

28 luglio
Airoldi, Bernasconi, e Galli risalgono la morena, indi il ghiacciaio per cercare di piantare il campo alto e fare una ricognizione. Io e Villa sistemiamo tutto il materiale del campo-base e facciamo provviste d'acqua, prendendo con un "lazo" improvvisato dei piccoli iceberg e facendoli poi sciogliere sul fornello. Nel tardo pomeriggio rientrano i tre, partiti in avanscoperta. Hanno piantato le due tende del campo alto.

29 luglio
Piove fino e mezzogiorno. Nel pomeriggio si parte tutti per il campo alto. L'esperienza di spedizioni precedenti ci ha messo sull'avviso circa la pericolosità dei crepacci su queste montagne e pertanto decidiamo che ad ogni tentativo parteciperemo tutti e cinque, divisi in due cordate , in modo da poter soccorrerci vicendevolmente in caso di necessità.
Al campo alto, installato sul ghiacciaio a circa seicento metri s.1.m perveniamo dopo circa tre ore di faticoso cammino su una morena estremamente instabile. Il campo è circondato da un magnifico anfiteatro. Volgendo le spalle al mare, in un arco che va da sinistra a destra, abbiamo: una caratteristica montagna tutta guglie che assomiglia stranamente alla nostra Grignetta, un ghiacciaio seraccato che porta ad un colle, una cima con un'enorme calotta di ghiaccio, delle cime caratteristiche fra cui una ardita piramide, al centro verso destra l'impressionante parete nord del monte Agpartût (altezza della parete, 1200 metri circa), un alto ghiacciaio con una grande bastionata di seracchi nella parte mediana ed infine il contrafforte della bastionata che fascia verso nord-ovest la Penisola Wegener.
Il tempo per ammirare il panorama è però breve, infatti cala una leggera nebbia e ricomincia a piovere.

30 luglio
Mettiamo fuori il naso dalla tenda e ci accoglie ancora un'acquerugiola autunnale che ci induce a ritornare nelle scomode tende. Scomode, anche perché il movimento del ghiaccio qui è molto sensibile, ed il fondo spianato il pomeriggio, nel primo mattino seguente si presenta già come il tumulo di una tomba, mentre la tenda si è tutta allentata.
Durante la mattinata il tempo sembra migliorare e questo ci induce verso le 13-30 a partire per tentare la cima più orientale. Risaliamo zigzagando fra i crepacci del ghiacciaio orientale da noi battezzato Ghiacciaio Brianza. Il tempo ridiventa incerto, ma la visibilità si mantiene abbastanza buona. Il colle si presenta come un erto muro di ghiaccio con crepacci e cornici. Lo superiamo sulla sinistra là dove il ghiaccio lambisce le rocce. Viene messa una corda fissa da 60 metri per facilitare la salita e la discesa, essendo questo passaggio di ghiaccio vivo oltre che ripido (55°-60°) molto esposto a scariche di pietre.
Al colle incontriamo raffiche di vento e nevischio. Appoggiamo a destra ed attraversato un "Plateau", attacchiamo il pendìo che porta alla cresta ovest, che percorriamo tenendoci sotto il filo verso sud, onde evitare le cornici. Il tempo ora volge decisamente al peggio ma proseguiamo con sicurezza essendo le difficoltà della cresta non eccessive. Alle 19,50 arriviamo in vetta in mezzo alla bufera. Gli altimetri segnano 1780 metri.
Dedichiamo questa cima alla Città di Carate Brianza. Scattiamo frettolosamente e senza convinzione qualche foto, date le condizioni del tempo che hanno notevolmente diminuito la visibilità, e subito ritorniamo, felici di questa prima vittoria.

31 luglio
Beffa. Uno splendido sole in un cielo terso ci accoglie al nostro risveglio. Nel pomeriggio scendiamo al campo-base poiché tutti sentiamo il desiderio di un solido pasto. Scarseggia l'acqua.

1 agosto
Al mattino presto si va sulla spiaggia in cerca di frammenti di iceberg spinti verso riva dalla marea. Siamo fortunati e troviamo tanto ghiaccio che una volta sciolto può riempire due ghirbe da 20 litri ed alcune pentole.

2 agosto
Campo base; in mattinata prepariamo gli zaini ed alle 11,30 partiamo per il campo alto. Dopo una breve sosta per prendere i materiali, alle 15,30 ripartiamo. Questa volta risaliamo il ghiacciaio occidentale (da noi chiamato Ghiacciaio Volta) per vedere se vi è la possibilità di attaccare da quella parte la massima cima della Penisola Wegener: il monte Agpartût. Questo ghiacciaio è più ripido, e perciò prendiamo quota rapidamente.
Evitiamo la seraccata mediana spostandoci completamente a destra in un ripido canaletto di ghiaccio ricoperto di rocce rotte. Perveniamo quindi ad un grande «plateau». Sulla nostra sinistra vediamo due punte, separate da una sella: una costituita da una grande calotta di ghiaccio, l'altra da una irregolare piramide di rocce ammassate a guisa di gamba.
Ritenendo di potere da una di esse osservare comodamente l'Agpartût, attraversiamo l'infido ghiacciaio in direzione del ripido pendìo che porta alla sella. La neve che ricopre il «plateau», lavorata dal sole che non tramonta in questi tempi, è quanto di più brutto si possa trovare.
Individuare i crepacci piccoli è un'impresa difficilissima. Come è accaduto durante la prima ascensione, ognuno di noi, ogni tanto sente il vuoto aprirsi sotto e gridando, subito si butta nella posizione che ritiene più idonea onde evitare di cadere completamente nella voragine. Se potessimo volare lo faremmo volentieri. Nel terso superiore del pendìo un enorme crepaccio ci sbarra la strada, attraversiamo il pendìo sul labbro inferiore di questo in direzione di un ponte che si intravvede a destra. Il nostro movimento causa delle piccole slavine che scivolano frusciando.
Superato il ponte carponi, attacchiamo la parte finale del pendìo che ora è più erto. Man mano che saliamo, la neve cambia, da granulosa diventa come grandine sino a formare dei chicchi grossi come noci che ricoprono il ghiaccio vivo, rendendo delicatissimo il superamento di questo tratto, in quanto i ramponi non riescono a mordere, per l'instabilità di questo strato di chicchi di ghiaccio.
Alla sella puntiamo sulla cima di destra e superando grossi blocchi di roccia instabili, anche se non difficili, e perveniamo alla vetta.
L'altimetro segna 1620 metri. Sono le ore 20 circa del 2 agosto. Dedichiamo la punta a Verano Brianza, mio paese natale.
La caratteristica della neve e le grandi cornici della cresta ci convincono dell'impossibilità di arrivare in vetta all'Agpartût. Decidiamo pertanto, di scendere alla sella e di attaccare il pendìo ovest che porta in vetta alla calotta di ghiaccio alla nostra sinistra. Alle 21,45 siamo in vetta, l'altimetro segna 1617 metri. Dedichiamo la punta alla Città di Como. Rientriamo al campo alto alle ore 1,20 del giorno 3 agosto e troviamo ancora le tende da sistemare, depositiamo i materiali e scendiamo al campo-base.

4 agosto
Nel pomeriggio decidiamo di approfittare del bel tempo per tentare una cima intravista durante la prima ascensione. Partiamo dal campo-base alle ore 20,30. Al campo alto prendiamo il materiale e iniziamo l'ascensione.
Rifacciamo in parte il percorso della prima ascensione e usiamo ancora la corda fissa lasciata in precedenza per arrivare al colle. Qui ci si presenta, in una splendida notte artica, il monte Carate Brianza con la sua maestosa parete nord-ovest e rivediamo l'itinerario da noi seguito nella bufera. Ma non possiamo attardarci oltre; ci attende un'altra cima. Si è alzato un forte e gelido vento ma il cielo è sereno. Al «plateau» pieghiamo decisamente a destra volgendo le spalle al monte Carate Brianza e scendiamo un lieve pendìo seraccato. Subito dopo attacchiamo in diagonale un altro pendìo di ghiaccio che ci porta sul filo della cresta, anche questa di rocce rotte. Un ripido salto di ghiaccio ci sbarra la strada che porta in vetta, ma è l'ultimo ostacolo.
La vetta è costituita da enormi massi sovrapposti formanti un enorme ometto che accompagna il pensiero a mitici ciclopi. Giù il mare, coperto da vaganti iceberg, sembra un'enorme lastra di cristallo nella sua immobilità. Sullo sfondo l'indlandsis, immenso, e nel cielo terso la luna, si accompagna al sole già abbastanza alto; sono le ore 4 del cinque agosto. L'altimetro segna 1560 metri.
Dedichiamo la cima alla Città di Lecco. Rientriamo al campo alto, smontiamo le tende e, dopo esserci rifocillati, rientriamo al campo-base. Avendo constatato che ormai le condizioni dei ghiacciai diventano sempre peggiori cosi da dover procedere col cuore sospeso a causa delle innumerevoli insidie, adottiamo una maggior prudenza e decidiamo di terminare le esplorazioni di questo bacino, riservandoci di trovare una via di salita sull'altro versante (nord-est) della Grignetta Artica.

6 agosto
Passiamo la giornata a ritemprarci al tiepido sole. Verso sera riceviamo la visita dei coniugi Pedersen che, dovendo accompagnare un antropologo in un paesino a circa 30 chilometri hanno pensato di farci questa graditissima visita, portandoci della frutta fresca, mele provenienti nientemeno che dalla Tasmania che trovasi agli antipodi dal luogo in cui siamo.
La proverbiale gentilezza dei coniugi Pedersen, sperimentata da altre spedizioni italiane trova un'altra conferma ton questo atto di estrema cortesia. Li invitiamo a restare a cena con noi. Menù: risotto alla milanese e prosciutto di Parma con piselli in umido. Prima del commiato il signor Pedersen ci assicura che arriverà a prenderci nelle primissime ore del giorno 12 agosto.

7 agosto
Verso le 10 partiamo per ispezionare il versante nord-est della Grignetta e contiamo di poter concludere il giro in 5 o 6 ore, ma purtroppo il continuo salire e scendere su instabili e interminabili morene ci costa 9 ore di tempo, con l'unico risultato di averci permesso di vedere, anche se di lontano, il versante nord-nord est del monte Carate Brianza. Circa la Grignetta, un ghiacciaio pensile posato sulle infide rocce, ci fa scartare l'idea di un attacco.

8 agosto
Mattinata con cattivo tempo. Nel pomeriggio vediamo in mezzo al fiordo una lunghissima ed alquanto larga striscia argentata su cui si posano innumerevoli uccelli. Deduciamo si tratti di un grosso banco di pesci.

9 agosto
Trascorriamo buona parte della giornata nel tentativo, di trovare un passaggio nel torrente limaccioso che scorre a circa 300 metri dal campo-base, ma invano. Questo passaggio ci avrebbe dato la possibilità di salire su una arrotondata montagna posta ad est dal campo-base, dalla cui vetta si sarebbe vista la parte terminale del fiordo con le cime orientali di Qîoqe.
Rimpiangiamo la mancanza di un battello pneumatico che ci avrebbe permesso di aggirare l'ostacolo dal mare.

10 agosto
Verso le 5 si ode uno, strano rumore verso l'imboccatura del fiordo. Ci alziamo per rendercene conto, e constatiamo trattarsi di due grosse balene che, emergendo per respirare, provocano un sordo rumore. Il cielo è coperto e nel pomeriggio si mette a piovere.

11 agosto
Durante la notte è caduta la prima neve sino a 700 metri circa. Incominciamo ad imballare i materiali e smontiamo una tenda. Verso sera, raduniamo in una buca tutte le latte e scatolette e vi gettiamo sopra dei grossi sassi. A mezzanotte diamo fuoco ad un grande mucchio di carta, scarole, legna, indumenti, ecc.
È nostra intenzione lasciare questo luogo pulito e in ordine come l'abbiamo trovato; in una bottiglia, che appendiamo con due chiodi ad un roccione che proteggeva le nostre tende, infiliamo un messaggio con i nostri nomi.
Fa freddo e ci attardiamo presso il fuoco fino a godercene gli ultimi guizzi. Entriamo in tenda, nessuno però ha voglia di dormire, l'ansia del ritorno, il ricordo dei propri cari, le emozioni provate in questa bellissima avventura ci impediscono di prendere sonno.
Verso le 2 si leva un forte vento che ci fa rabbrividire nei nostri sacchi-piumino. Verso le ore 3,30 mi alzo e mi metto di vedetta; il signor Pedersen ci aveva detto che sarebbe arrivato verso le ore 4. Il vento soffia ancora più forte ed il mare è abbastanza mosso e ciò mi preoccupa un poco. La nave deve partire da Umanak il giorno 14 alle ore 7, pet cui noi dobbiamo arrivare ad ogni costo in quella cittadina entro la giornata di domani.
Ma ecco, che verso le ore 7 il vento diminuisce ed alle 7,40 avvisto una barca che si dirige verso di noi. Sbarcato, il signor Pedersen, si scusa! Gli si è guastato il battello ed è dovuto venire con la barca che deve servire per il materiale. Il vento ricomincia a soffiare e le condizioni del mare non ci permettono di imbarcarci. Bisogna forzatamente sostare.
Verso le 13 il capo-barca interrogato dal signor Pedersen, dice che si potrebbe tentare, riservandosi di tornare subito a riva qualora egli non giudicasse sicura la navigazione. Ci imbarchiamo alle 13,20, lasciando tutto il materiale sulla spiaggia. Verranno poi gli Eschimesi a prenderlo in un successivo viaggio. La barca è un po' sovraccarica, il bordo esce di poco dall'acqua e questo ci mette un poco in apprensione. Ma avendo sperimentato la perizia di questi navigatori, ci affidiamo a loro con fiducia.
Appena usciti dal fiordo, la mutata direzione del vento solleva degli spruzzi d'acqua che ci investono congelandoci. Rimpiangiamo amaramente di aver lasciato le nostre tute impermeabili fra i bagagli. Gli Eschimesi (beati loro) indossano subito pantaloni e giubbe in pelle di foca.
Fortunatamente dopo circa 4 ore di navigazione, possiamo trasbordare sul battello del signor Pedersen (che nel frattempo era stato riparato della “panne” ); nella sua calda cabina ci ristoriamo e continuiamo il viaggio sino a Umanak che raggiungiamo alle 21,50. Il vento ha steso un velo di ghiaccio sottile sull'acqua del porto, saldando fra loro gli innumerevoli iceberg che vi pullulano. Passiamo la serata ospiti dei coniugi Pedersen che da grandi anfitrioni quali sono, ci ammaniscono una succolenta cena a base di salmoni, aringhe, arrosto, ecc.,il tutto innaffiato da ottimo e biondo vino del Reno. Una serata indimenticabile in compagnia di queste due persone della gentilezza estremamente squisita, tanto che non sappiamo trovare termini adatti e degni per elogiarli e ringraziarli.

13 agosto
Passiamo la giornata passeggiando per Umanak; nel pomeriggio imballiamo gli ultimi colli del materiale che gli Eschimesi sono ritornati a prendere.

14 agosto
Alle ore 6,20 dalla finestra della nostra camera (nello stesso appartamento riservatoci al nostro arrivo) vedo entrare in porto riportare ad Egedesminde. Ci imbarchiamo alle 7,30 dopo esserci accomiatati dai coniugi Pedersen e festosamente salutati sulla banchina da buona parte della popolazione.
Poco prima della partenza, vediamo issare sul pennone di casa Pedersen la bandiera danese e come la nave comincia a muoversi, una salva di fucileria ci saluta; è lo straordinario mister Pedersen che in compagnia del suo aiutante Joseph, si è portato su un dorso per mandarci il suo ultimo saluto. Noi rispondiamo (sbracciandoci e agitando fazzoletti) a questo per noi inconsueto modo di salutare e, con un ultimo sguardo a Umanak, iniziamo il viaggio di ritorno.

Atto Alain Dutrevis, febbraio 2003.

Note tecniche :
La zona è caratterizzata da rocce cristalline stratificate in varie dimensioni e di vario colore. Le tonalità vanno dal grigio al giallo, al verde, al rosso, fino al bruno.
Le qualità della roccia sono pessime. L'alternarsi i strati formati da pezzi di piccola dimensione ad altri di media o addirittura di grossa dimensione, causa continue scariche rendono pericolosissime le ascensioni. Di conseguenza le nostre ascensioni sono state effettuate prevalentemente su ghiaccio, limitando la roccia ai passaggi obbligati ed alle creste finali.
Con migliori condizioni di ghiaccio, si sarebbe tentato anche l'Agpartût che è la cima massima della Penisola Wegener. Ma la lunga cresta di ghiaccio che, partendo della Punta Como in direzione est, porta ad un caratteristico dente e, successivamente volgendo a sud raggiunge l'Agpartût, richiede condizioni di neve ottime a causa delle numerose cornici.
Le quattro cime da noi salite sono d classificare di media difficoltà con dei passaggi difficili.
Chiodi usati: n.3 da ghiaccio tutti ricuperati, n.2 da roccia di cui solo 1 ricuperato. Una corda a 6 mm di 60 metri usata come corda fissa, non è stata ricuperata.